Se il visitatore per un istante chiudesse gli occhi, quasi a lasciarsi trasportare, si sentirebbero gli echi lontani dell’atroce bisbiglio, delle urla soffocate, dei respiri convulsi delle donne incatenate e internate. In questa raccolta di frammenti fotografici e documenti storici provenienti dagli archivi dell’ospedale psichiatrico di Sant’Antonio Abate di Teramo, si prende coscienza di ciò che è stato; atroci e muti delitti che per molto tempo sono stati riposti nel dimenticatoio, oblio crudele dell’ego contemporaneo. Emergono ritratti in bianco e nero, freddi sorrisi che nascondono in sé le sofferenze private, i vissuti complessi, le biografie lacerate. Questi visi sudici, a cui tutto è stato strappato, sconvolti e marchiati perpetuamente nell’anima, appartengono a donne per lo più contadine, in cui la malattia si è insinuata come serpe velenosa nel corpo e nella mente senza più lasciare il nero nido. Spaesate nello spazio e nel tempo, in un fisico che non risponde più ai pensieri comuni del vivere stabile, esse sono “i fiori del male”, rami spinosi da recidere per l’ideologia pericolosa e mortifera della politica nazi-fascista di cui i più deboli hanno poi pagato l’amaro prezzo. Dai referti affiorano storie mai vissute, vite contratte dalla miseria e dalla fame, dalla precarietà quotidiana ricca di nulla e di vuoti, donne rinchiuse in manicomio perché ostili ai dogmi e agli stereotipi della sposa e della madre esemplare, il cui corpo era invece destinato a concepire e dove, nello specifico, le espressioni di libera sessualità furono contornate dalla vergogna collettiva e dal peccato, inserite in un quadro psico-patologico ben distinto. Le fotografie scattate sono servite durante il regime fascista per catalogare i caratteri propri del male e per consolidare il ruolo subalterno della donna rispetto all’uomo. I profili drammatici di queste donne ricoverate raccontano labilmente di figlie, mogli, madri contro natura e vedove segnate dal dramma della guerra, vittime di violenza carnale, deboli e malate a cui la società fascista, in “difesa della razza”, rimuove e strappa con gli artigli della follia i pochi sorrisi timidi e accennati che emergono da questo oscuro scenario fatto di elettroshock, di isolamento e di reclusione totale. Da alcune lettere mai spedite ai famigliari, si leggono gli appelli imploranti delle internate. Nel 1920 così scrisse la paziente Haidè B.: “Io trovarmi in questa sezione, tra malate di ogni genere, tra le sofferenti, tra le asmatiche, tra le dementi con visi stravolti, con il fetore della notte, da sentirmi difficile la respirazione; oh questo è troppo, troppo”. Come la storia di Sabina Spielrein, ricoverata in un manicomio presso Zurigo, guarita e poi fucilata in una sinagoga dai nazisti nell’agosto del 1942. Queste e altre sono storie dimenticate, vite sbiadite che oggi ritornano e rivivono simbolicamente per non far dimenticare a noi ciò che è stato.
(fonte: Artribune)